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Tabià come legno tessuto a trama trasparente per ventilare l’erba poi fieno, zoccolo solido, pietra e intonaco, filtra poca luce, trattiene il calore animale e profumi e odori dimenticati, casera per sosta stagionale, spazi ridotti all’essenziale, per fare una polenta o riparare gli attrezzi; su tutto il silenzio e fantastici i riflessi del legno con oro e marrone o grigio incanutito, sapiente.
La tenerezza della parsimonia, l’arte del rammendo edilizio, la logica strategica del riciclo, l’economia del limitato, il giusto delle dimensioni, tutto è in equilibrio con il suo intorno, è pace degli occhi, pausa serena meditativa, silente.
Architettura povera, reale,
proporzionata all’uomo, alla fatica rurale come il nostro passato
recente, negata nell’ancor più
recente sviluppo, manufatti che non esistono più per sconsiderati
interventi di riuso, stravolta con marciapiedi e recinti, con
piastrelle e pvc, diventata CàRustica, arredata di serie.
Senz’anima.
Scrive Paolo Rumiz nella sua Leggenda
dei Monti Naviganti: “pochi luoghi sono riusciti a salvarsi dal
grande massacro dell’Alpe italiana, vediamo montagne sventrate
dall’arroganza del denaro, vallate affogate nel cemento, e ovunque
la sindrome dei balconi fioriti” Alpi-land come Disney-land...
Primiero-Land: uniti da un sistematico, grottesco, linguaggio
paesaggistico/edilizio.
Per vendersi meglio.
Metodo condiviso a priori da molti paesaggi alpini, assieme a noi.
Forse qui è anche punta dell’iceberg
di “crisi identitaria”, Primiero mescolata dalle migrazioni,
scopertasi da poco priva di vuoto antropico, semmai acropoli della
pianura veneta che ci ha visti Reti e Romani, Merovingi e territori
di confine nord del Lombardo Veneto e poi settentrione Tirolese e poi
di nuovo Italia, con la pellagra prima e poi, di colpo, schizzati
verso la celebrità: anni ’50 - il boom della vacanza in montagna.
Difficile pensare a tradizioni
millenarie, arduo scegliere chi c’ha lasciato di più, cosa tenere,
cosa lasciare, si fatica meno a cancellare, a rifarsi un’identità
che tira, che piace al turismo di massa, un restyling di facciata
ispirato all’industria degli yodler.
E così si va - per trasformare la
realtà in una polpetta edulcorata, grottesca ma accattivante,
certamente pittoresca, adatta a gusti globalizzati. Scelte che hanno
imposto facciate sgargianti e terrazzi pieni di geranei, mentre
tagliamo il roseto centenario o la vigna di antico “clinton”
ridossati alla casa, promessa di frescura estiva; ricostruiamo con
freddo calcestruzzo sani muri di granito porfido e scisto ma gli
appiccichiamo la “pietra angolare a sbalzo” in polestirolo
colorato; il legno è ormai un rivestimento, stessa sorte per
finestre e porte in plastica “modello legno antico” prodotti di
serie, frutto di progetti di serie, per un occhio di serie, una
banale finzione di alpinicità, balconi effetto Alto Adige
(non ne ho mai visti di così grevi lassù..) addobbano case clonate,
con parapetti in alluminio verniciato a “vena larice” ....eterni
!
E’ anche in questa necessità di eterno che non mi ci ritrovo, ove s’è diluito il piacere del tempo che passa sulle cose, sulla nostra terza pelle: la casa, che invecchia, come noi, che stagiona, come noi, che acquista sapore vero, come noi, che si rompe o si rovina, come noi, che muore. Come noi .
Distante e lirica la descrizione dell’ architetto Edorado Ghellner vent’anni fa, pioniere con l’Alpago-Novello delle indagini sull’architettura rurale alpina, che tracciava: “...in questi territori isolati e difficili, dove però gli oggetti della natura sono sempre presenze di grande suggestione ed individualità, si è sviluppata, sui valori dell’identità e dell’autonomia, una cultura locale caratterizzata da una forte persistenza del linguaggio, da una lenta evoluzione di modelli, da una particolare resistenza alla contaminazione, quasi che i luoghi aspri e bellissimi che tale cultura aveva generato, volessero anche proteggerla nella sua specificità - una relazione particolarmente forte fra società ed ambiente ed un legame antico e indissolubile ...”.
Oggi gran parte del nostro costruito
antico va perdendosi, grazie ad un’insanabile buco culturale che
non sa leggere la bellezza della semplicità, l’acutezza delle
soluzioni povere, la sostenibilità costruttiva delle intuizioni per
necessità. Una gap che pagheremo, negli anni, guardando indietro
quanto del nostro patrimonio di edilizia minore è stato devastato
dall’incoscenza locale di politici, committenti, tecnici e
costruttori insensibili al carattere ed al fascino di centri storici,
delle casère e dei tabiàdi.
Ma, per fortuna, si registra un lento
avanzare di gusto più raffinato, alla ricerca di manufatti concreti,
ultimi pezzi di storia intonsa, di soggetti popolari veri,
preziosamente intoccati, dentro e fuori i paesi, sino a quote dov’è
fattibile riappropriarsi di se stessi. Manufatti perduti che rivivono
nel valore del genius loci, dopo lo sguardo solare di prati sfalciati
di fresco, là trova ristoro la mente affannata di questo nuovo
millennio.
Salveremo così per i posteri una
traccia di noi popolo alpino, legato sin dall’origine con il
territorio, cui dobbiamo l’onore della memoria.
Primiero: propaggine anche culturale
della pianura veneta che diventa Vette Feltrine a sud, incastrata ad
est sulle dolomie delle Pale di San Martino - terre di passo per
viaggiatori ottocenteschi inglesi - confinata a nord dai porfidi del
Lagorai bagnati dall’eco di una grande guerra e sprofondata ad
ovest, nel Vanoi, sotto il granito della Cima d’Asta; la valle ed i
paesi, la montagna con i masi, il bosco, i prati, le cime... il
cielo.
Tornarci, come i salmoni che risalgono
alla foce, con una sottile e permanente tensione, a volte negata o
solo sopita, che lega noi uomini accolti dalle Alpi a questa nostra
terra, ci fa sentire parte di qualcosa nonostante un mondo in
angosciante dispersione di identità.
Parlare di Primiero, di ritorno da
città lontane scuote sentimenti da dentro, nel profondo, ed è
certamente questo il risultato buono che la mia Valle lascia addosso,
comunque, sempre.